Fratelli di latte
N.1 - La famiglia di mia nonna con i vocaboli che ho imparato, le famiglie che vengono escluse e quella sensazione interna di volermi scucire
Questa newsletter non sarebbe venuta al mondo senza le mie sorelle meridionali Raffaella e Melissa, che mi hanno nutrita di coraggio, amore e insegnamenti; senza Sofia per l'amore, le riflessioni, la sua decostruzione; senza la rete di professioniste che ogni giorno mi ricordano che di accessibilità e linguaggio non dobbiamo smettere di parlare.
Adesso possiamo davvero iniziare con Janare #1!
Tempo di lettura: circa 6 minuti
Ho pochi ricordi della mia infanzia e adolescenza. Mi ricordo però di zio Armando, da Boston. Zio Armando non era veramente mio zio, né zio di mio padre, ma era - così come me l’ha sempre presentato mia nonna - il suo fratello di latte. Se esiste un posto dove ci si ritrova dopo la morte, io spero che mia nonna dall’anno scorso in qualche modo abbia ritrovato zio Armando.
Io facevo molta fatica a capire chi era il fratello di latte, perché nel mio vocabolario non esisteva una parola per parlare di un legame fraterno che nascesse al di fuori della stessa famiglia. Allora mia nonna mi raccontava che avevano condiviso il latte della stessa madre, pur avendo genitori diversi; che, cioè, una delle loro madri allattava entrambi, perché l’amica di cortile non ne aveva abbastanza, di latte.
Non esisteva un legame di sangue, eppure il latte li rendeva fratelli. Ma fratelli davvero, perché zio Armando ogni volta che veniva al suo e al mio paese da Boston, faceva tappa fissa a casa e mi ricordava di mangiare i broccoli di rapa perché
“i piatti di quando avevamo poco sono quelli che sanno di più”.
Il vocabolario che cambia e che esclude
La storia dei fratelli di latte mi è tornata in mente appena ho letto dell’approvazione del Ddl Varchi, che rende la GPA (Gestazione per Altri) in Italia reato perseguibile anche quando fatto in paesi diversi dal nostro. Non che prima fosse legale in Italia - non lo è mai stata - ma ora diventa perseguibile, secondo le leggi italiane, ogni coppia che ricorre alla GPA anche se lo ha fatto in altri paesi.
Quando ho iniziato a scavare nelle storie del passato ho imparato che esistevano famiglie che si creavano in altri modi, figli che diventavano fratelli per il latte o per il tetto condiviso, figli che uscivano dalle norme che la tradizione - come ce la raccontano oggi - ci impone. Ho imparato attraverso le storie di mia nonna e di altre anziane, Janare del paese mio, che i figli non erano mai stati proprietà di una sola persona, ma diventavano parte di un gruppo o diventavano figli di tutto il gruppo.
La procreazione e/o la maternità, nelle storie che mi sono state tramandate, è sempre stata uno spazio collettivo dove le donne e le persone con utero si supportavano a vicenda, quando i figli non si riuscivano ad avere o quando i figli non si volevano; ma non con le parole svuotate di oggi, quanto piuttosto con pratiche comunitarie riconducibili alla vita di gruppo del cortile.
Così nel cortile c'era un figlio che diventava un fratello, o c'era un amico che diventava fratello di latte. Non c'era un vocabolario, nel cortile di mia nonna, che escludesse qualsivoglia modo di diventare madre.
Perciò oggi mi ritrovo di nuovo a pensare che le parole che scegliamo definiscono i mondi che vogliamo. Uno stato che rende la GPA un reato perseguibile secondo le leggi italiane anche quando fatto all'estero, sta scegliendo di creare un mondo escludente, di alimentare l'invisibilizzazione e la criminalizzazione di determinati gruppi di persone.
Sta scegliendo di fare politica sui corpi delle donne e persone con utero lasciando indietro, invece, il sacrosanto diritto all'autodeterminazione.
Sta facendo politica utilizzando soprattutto il linguaggio e la manipolazione attraverso le parole, scritte o parlate, di fatto plasmando un mondo dove i nemici sono sempre le categorie marginalizzate.
Fino a tradurre i discorsi manipolatori in vere e proprie leggi in cui si passa ai fatti, in cui alcune famiglie vanno sotto il nome di reato.
Chi sono ora l'ho imparato dalla mia terra
Quando ancora vivevo a Bucciano, utilizzavo sostantivi precisi e ricorrenti per descrivere il mio paese: noioso, piccolo, senza prospettiva.
Succede poi che mi trasferisco a Bologna nel 2019 e inizio a fare esperienza del linguaggio riservato a me.
"Sei brava a nascondere il tuo accento, non si direbbe che sei del Sud".
Non avevo mai sentito quelle parole prima di quel momento: mi mettevano addosso un disagio non indifferente, più di tutto perché sentivo quanto la mia voce cambiasse per davvero. Chi ero?
Mi imbatto in un concetto nuovo nel momento in cui incontro persone che vivono il mio stesso disagio: si chiama antimeridionalismo - e, quando sei tu meridionale che lo porti avanti, diventa interiorizzato.
Così inizia un percorso in cui piano piano mi imbatto, anche con lo studio, in tutto un universo di parole che rappresenta una nuova resistenza: il vocabolario delle marginalità.
Dove esiste il concetto di discriminazione, accessibilità, stereotipo, usabilità.
Inizio da quel 2019 a costruire la persona che sono oggi, ritornando a Bucciano con un occhio nuovo e andando a riprendere la storia delle Janare del passato, le mie radici.
Che stregoneria è questa?
Janare è nata per portare in uno spazio più ampio, tutte quelle cose che oggi vorremmo fossero parte delle nostre pratiche quotidiane, dal lavoro alle relazioni: peccato che vengano ancora considerate abbastanza delle stregonerie, pozioni strane a cui non facciamo troppo caso perché insomma, non ci toccano.
Allora che senso ha metterci dell'impegno?
E invece no. L'accessibilità è una pratica che rende democratico e aperto ogni servizio e bene davvero a tutte le persone, a chi ha una disabilità o vive una discriminazione. È una stregoneria che dovremmo imparare un po' tutte e tutti, che dite?
Ci proviamo qui, tra la mia e le altrui voci.
Dentro e fuori il cortile
Io e
ci troviamo più o meno ogni martedì - quando possiamo, quando ci riusciamo, con molta libertà! - alle 10.00 per fare coworking. Vuoi venire anche tu? Scrivi a me o a Marco su Instagram.Associazione Acca è lo spazio a Torino che mi ha accolta da quasi un anno, con il suo Pink Coworking e i progetti rivolti a cittadinanza e a professioniste freelance. Martedì 26 novembre alle 17.30 torna lo Sportello Freelance: questa volta si parla di public speaking. A questo link trovi una spiegazione più lunga e completa.
Associazione Acca si trova in via Bertolotti, 10 a Torino - all’interno della Circoscrizione 1. Se vuoi associarti, venire al Coworking, organizzare qualcosa, scrivici una mail a: info@associazioneacca.eu
Janare torna tra un mese, ma se vuoi leggermi o ascoltarmi puoi anche seguirmi su Instagram o su LinkedIn.
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