Scegliere la consapevolezza
N. 10 - È quello che vorrei facessero le aziende quando si parla di accessibilità
Non riesco mai a scrivere in modo metodico, normale (cos’è poi normale chissà), quando non sto versando lacrime o annegando in qualche stato d’ansia. Questa cosa inizia a darmi un po’ noia, tale che vorrei aprirmi il cervello e parlare coi miei neuroni per chiedergli: allora, quand’è che funzioniamo in maniera più semplice? Tipo che se A allora B, se B allora C?
Poi mi ricordo di come è stata la mia vita finora, mai una generica successione di elementi complementari, piccoli lego che si trovano facilmente, quanto piuttosto una borsa dei giocattoli confusa in cui magari ci trovi anche dei quaderni di scuola e pure una maglietta del mare. N’arrevuot, si direbbe da me.
Quell’arrevuot non è certo uno spazio semplice da navigare, eppure sono io. Lo vivo e lo rendo vivo, con i miei modi di seguire il vento e guardare la mappa.
Quindi ti dicevo, in questo spazio se non c’è mare mosso a quanto pare la scrittura non arriva prorompente, capisci? È un bisogno fisiologico quello che ho, di andare almeno un pizzico a scavare in un antro buio di me per rimescolare le carte e aiutare le dita a fare il loro lavoro sulla tastiera.
I bisogni sono una grande mappa del tesoro quando parliamo di accessibilità. È proprio grazie a quelli che possiamo scoprire come rendere uno spazio o un servizio davvero accessibile. Eppure nell’ultimo anno ho visto il paradigma spostarsi: dai bisogni delle persone con disabilità siamo passati al bisogno dell’azienda/realtà di conformarsi all’EAA.
Se non sai di che normativa sto parlando, ti guido subito: parlo dello European Accessibility Act, la direttiva europea che sancisce i requisiti minimi di accessibilità per i prodotti e i servizi digitali, per rendere anche lo spazio dei beni e servizi digitali uno spazio accessibile e che risponde ai bisogni delle persone con disabilità.
Dal 28 giugno 2025 - momento dell’entrata in vigore della direttiva - sùbito si è portata alla luce l’esigenza e l’obbligo per le aziende di adeguarsi, essere conformi alla direttiva. Sembrava che il punto focale di tutto il discorso fosse aiutare le aziende a recepire una direttiva e conformarsi, aiutarle a evitare sanzioni.
Tutto giusto, se non fosse che in tantissimi discorsi sull’EAA (European Accessibility Act) non ho sentito altro che questo. Una dietro l’altra, parole che mettevano al centro la conformità alle norme, le sanzioni per la mancata conformità, la produttività.
Ma al centro non c’erano i bisogni delle persone?
Parliamo di una direttiva e quindi il piano legale quasi naturalmente prende una grande parte del discorso; ma il nostro tema è l’accessibilità e, se davvero ci crediamo, bisogna che impariamo a puntellare le persone per riportarle sul vero focus. Cosa ce ne facciamo della conformità senza la consapevolezza?
È la domanda che mi martella da quando tutto il web si smuove per rendere conforme ogni sito web, ogni prodotto, ogni app. L’EAA apre le porte su un tema quanto mai necessario e importante, ma non possiamo correre il rischio di dare una ripulita alle nostre vetrine e nascondere il disordine che c’è dietro.
Se vogliamo parlare di accessibilità, è necessario che alle persone iniziamo a dire perché è importante l’accessibilità. Bisogna parlare prima di tutto delle necessità, delle vite delle persone, del contesto sociale che dis-abilita.
Bisogna portare la consapevolezza al centro, prima della conformità. Non possiamo pensare di accontentarci di un prodotto che rispetta le linee guida quando magari in un team non si è mai sentito parlare di abilismo, di discriminazione sistemica, linguaggio people-first.
L’obiettivo deve essere quello di fornire informazioni alle persone affinché cambino paradigma, affinché un sito accessibile rispecchi davvero una realtà accessibile. E questo come si fa?
Si fa con percorsi di formazione sul tema, momenti di sensibilizzazione ma soprattutto una messa in discussione dei propri valori. Perché la cosa importante da chiedersi è: mi importa del mio sito accessibile o mi importa davvero delle persone con disabilità?
Un buon auspicio arriva dalla bozza delle W3C Accessibility Guidelines che potete leggere a questo link. Si va verso un superamento del “yes/no criteria” per abbracciare l’idea di “outcome”, un maggiore coinvolgimento umano con un’enfasi sulla necessità del testing condotto dalle persone. Come scritto da Diana Khalipina nel suo articolo, è un invito per designer, developers e organizzazioni a pensare meno al soddisfare lo standard e più all’incontrare le persone nel punto in cui sono, nei bisogni che hanno.
E in questo mare mosso, invece di scavare nel buio vorrei vedere una luce più forte: quella della consapevolezza che scalza la conformità, quella dei diritti che vince sopra la produttività.


grazie!
Già, essere compliant è diverso da essere accessibili!